Lydie Salvayre racconta la guerra civile spagnola come, forse, non l'avete mai sentita: in un romanzo bellissimo e raro, di grande intensità e lucidità.
Le vicende sono narrate attraverso due punti di vista. Uno, il principale, è quello di Monste, la madre dell'autrice, che giunta ai novant'anni ha dimenticato buona parte degli eventi della sua vita ma mantiene intatto e vivo il ricordo di quel 1936 in cui, sedicenne, insieme al fratello Josè lasciò la casa dei genitori per raggiungere la grande città (Barcellona) e vivere l'esperienza straordinaria della rivoluzione anarchico-libertaria, alla vigilia della guerra civile. Un'esperienza che segnerà per lei il passaggio dall'adolescenza all'età adulta e non sarà solo una iniziazione politica ma molto, molto di più.
L'altra voce che l'autrice non semplicemente cita ma fa diventare co-protagonista del romanzo, è quella dello scrittore francese Georges Bernaros che in quegli anni visse sull'isola di Maiorca e fu testimone sgomento dei numerosi orrori perpetrati dai nazionalisti, nonché della connivenza tra la Chiesa e i responsabili di queste atrocità. Per lui, profondamente cattolico, è una lacerazione profonda che lo porterà prima a lasciare la Spagna e poi, coraggiosamente, a raccontare il tutto in "Grandi cimiteri sotto la luna", un libro dirompente che gli alienerà non pochi consensi.
Il libro della Salvayre non fa sconti: restituisce la violenza di quegli anni, le prepotenze, le ingiustizie e le vigliaccherie. Ma anche le passioni e le utopie, la grande Storia e le piccole storie, con tenerezza e ironia. Un meraviglioso romanzo che in duecento pagine parla di Storia, di vita, di noi.
Diario dolente e dolce della malattia di Pia Pera. Un malattia progressiva e incurabile che lascia ben poco spazio alla speranza. L'autrice ce la racconta passo a passo, tra speranza e accettazione, illusioni e rassegnazione. nelle sue riflessioni sulla vita, sulla morte, sulla malattia non ci nasconde il senso di sconforto, la paura incontrollata, il panico; ma anche la lucida consapevolezza che le permette di cogliere momenti di gioia pura, nonostante tutto.
Il giardino è il vero compagno di questo percorso fisico e spirituale, la solitudine è il mezzo. In questo modo riesce a liberarsi dalla zavorra del passato ma anche da quella del futuro, resta l'istante presente, vissuto con tutta l'intensità ancora possibile in un sodalizio amoroso con la natura: il salute e in malattia, nella gioia e nel dolore. Un libro che emoziona.
Javier Marìas è un autore formidabile nella sua capacità di descrivere in modo lucido e preciso il desiderio e l'amore, anche nelle sue contraddizioni, nei suoi lati oscuri e feroci.
"Così ha inizio il male" è la storia di un matrimonio infelice e di un giovane che cerca di decifrare il mistero nascosto dietro questa infelicità. Parallelamente scoprirà altri misteri, altri segreti, sullo sfondo di una Spagna degli anni '80 che reca ancora fresche le ferite del franchismo.
Per il giovane Juan De Vere sarà una ricerca che lo porterà nei luoghi bui del ricatto, della vendetta, del dolore ma anche una strada verso la scoperta della sensualità femminile, del desiderio, dell'amore.
Il titolo è mutuato dal Riccardo III di Shakespeare: " Così ha inizio il male, e il peggio resta indietro", frase che rimane come nucleo dell'intero romanzo. Ma la cupezza del titolo non deve ingannare: è un libro che lascia speranza e insegna il perdono.
La Strout è tornata con un piccolo grande romanzo a parlarci di relazioni famigliari. Di quelle complicate naturalmente, di quelle infelici che, per dirla alla Tolstoj, quelle felici si assomigliano tutte e sono decisamente meno interessanti.
E la Strout è un'esperta nello scandagliare i legami dolorosi, nel raccontarci l'amore imperfetto e le ferite che lascia. Ma anche nel regalarci personaggi indimenticabili. E veri. proprio come lo è Lucy Barton: siamo a New York e lei è una giovane donna che deve subire un lungo ricovero in ospedale. Un giorno a sorpresa arriva sua madre, che non vede da anni, e che resterà con lei per cinque giorni. In questo tempo Lucy le chiederà di parlare, di raccontarle le piccole vicende (diciamo pure i pettegolezzi) di Amgash, il paese che Lucy ha lasciato molti anni prima. Non le chiede altro, non desidera altro: ascoltare sua madre è per Lucy come sentirsi cullata, ritrova affetto e dolcezza. Anzi, le basta risentire il nomignolo con cui la chiama: "bestiolina". Per lei è come una carezza.
Ma nell'ascolto di questi racconti in Lucy affiora anche il ricordo di un'infanzia durissima, di umiliante miseria, brutalità, ferite indicibili. E ripercorre la sua vita: da quando era una bimba alla partenza da Amgash, l'affrancarsi dalla famiglia e l'arrivo a New York, l'amore e l'approdo alla scrittura. Ripercorre la rabbia e forse il perdono.
La Strout ci ha dato uno di quei libri preziosi che sono in grado di trasmetterci le emozioni più diverse: dall'angoscia alla gioia, dalla tristezza allo stupore, lasciandoci alla fine una sensazione di commuovente dolcezza.
Un libro anomalo, difficile da classificare, fuori dal comune, potente. L'autrice racconta la sua storia, la morte del padre amatissimo, il lutto, la depressione e la falconeria. Sì, l'abbinamento è singolare ma, a ben pensarci, quando siamo spezzati da un dolore ci inoltriamo nelle strade più diverse. Nel caso della Macdonald la falconeria non è una novità ma la sua passione fin dall'infanzia. E' già un'esperta. La novità per lei sta nell'addestrare un astore: rapace particolarmente ferino, sanguinario, nonché un po' psicopatico. E nel rapporto esclusivo e animalesco che instaura con l'uccello c'è la sua discesa nei luoghi bui della depressione, dell'isolamento, della rabbia, per poi risalire verso la consapevolezza che, in fondo, siamo fatti per vivere con altri esseri umani, che "le mani umane son fatte per tenere altre mani". Nuovi desideri. Nuova fiducia.
A fianco della sua storia l'autrice racconta quella di T.S. White, scrittore inglese morto nel 1964 e noto per essere l'autore de "La spada nella roccia". White ha scritto anche un romanzo, "The Goshawk" in cui racconta il suo tentativo di addestrare un astore, e anche lui, nel suo rapporto con l'animale, riscrive (più o meno consapevolmente) il dramma della sua vita: l'omosessualità nascosta e negata, il bisogno lacerante d'essere apprezzato e amato, un'infanzia di soprusi e paure, e la constatazione del suo sadismo che lo lascia sgomento.
Helen Macdonald ci accompagna nell'inverno desolato del lutto e della depressione, ma il freddo finisce: ecco primavera e rinascita.